Storie a lieto fine

Le storie a lieto fine sono il risultato di un lavoro di squadra tra i pazienti, il team dei cardiologi e di tutti i professionisti del Cardio Center dell’Ospedale Niguarda, e la Fondazione Cardiologica Angelo De Gasperis.
  • Un lavoro ben riuscito

    Ciao, sono Giulia.

    Ho 33 anni, ma la storia del mio cuore è cominciata prima di me, quando il mio nonno paterno è morto a 52 anni di dissecazione dell’aorta addominale ascendente.

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    Un lavoro ben riuscito

    Ciao, sono Giulia.

     

    Ho 33 anni, ma la storia del mio cuore è cominciata prima di me, quando il mio nonno paterno è morto a 52 anni di dissecazione dell’aorta addominale ascendente. La sua malattia ha spinto i miei genitori a “tenermi d’occhio” da subito: così, i primi esami fatti appena nata hanno permesso di scoprire che avevo la valvola aortica bicuspide.

     

    Per un bel po’, questa cosa non mi ha complicato particolarmente la vita. Certo, ho fatto controlli annuali molto approfonditi al Policlinico di San Donato. E nel 2003 hanno sostituito la mia valvola “originale” con una valvola biologica umana e mi hanno inserito una protesi artificiale sul primo tratto di aorta ascendente. Ma ho recuperato molto velocemente – avevo 13 anni: la cosa che mi pesava di più erano… le cicatrici! – e sono tornata a fare quello che facevo prima, compreso giocare a calcio a livello agonistico.

     

    Tre anni dopo, però, ho perso il mio papà, e per la stessa identica ragione del nonno. Mamma mi ha portato al Centro per le malattie genetiche cardiovascolari del San Matteo di Pavia, dove l’equipe che mi ha seguito ha escluso – era questo il timore più grande – la presenza di una sindrome di Marfan: una malattia sistemica ereditaria del tessuto connettivo le cui anomalie possono determinare alterazioni cardiovascolari.

     

    Giulia Spreafico

     

     

    La vita è ripresa – sempre con il monitoraggio periodico del cuore – e per 17 anni ho fatto le stesse cose dei miei coetanei: scuola e università, lavoro e vacanze, famiglia, amici e storie d’amore.

     

    Poi, il 29 marzo di quest’anno, ho sentito un dolore forte al petto e mi hanno ricoverano subito nell’ospedale più vicino. Non avevo nessuna anomalia nei parametri vitali, e per capire che qualcosa non andava ci sono voluti prima l’esame degli enzimi cardiaci e poi una TAC: dissecazione (ma senza rottura).

     

    Giulia SpreaficoLa ricerca di un centro di eccellenza specializzato in questo tipo di problematiche è scattata all’istante e Niguarda è stato il primo a dare la disponibilità: sono arrivata in Terapia Intensiva alle quattro del mattino del 30. Dato che la situazione sembrava sotto controllo, la mattina dopo mi hanno programmato un intervento dopo una settimana per dare all’aorta il tempo di stabilizzarsi.

     

    Il mio cuore, evidentemente, non era d’accordo. Ho sentito una morsa fortissima al petto e, dentro di me, due sensazioni contrastanti: da un lato ho pensato seriamente che sarebbe finita, dall’altro l’effetto dell’antidolorifico e le rassicurazioni dei medici mi hanno ridato speranza.

     

    I miei ricordi si interrompono lì e l’ho saputo solo dopo: era l’aorta che si stava spezzando. Il dottor Tolva e la sua équipe sono intervenuti immediatamente e, quando mi sono svegliata, erano tutti intorno a me. Da come mi guardavano ho avuto l’impressione che pensassero di aver fatto “un lavoro ben riuscito”.

     

    Sono felice: felice di esserci e immensamente grata. Felice di continuare la mia vita dove c’è ancora posto per tante cose, sport compreso.

     

    Cosa spero? Che la mia esperienza possa essere utile anche a chi verrà dopo. E, dopo quello che è successo al nonno e a papà, di essere quella che, nella mia famiglia, ha segnato l’inversione di tendenza. Se sarà così, saprò di aver fatto la mia parte per le generazioni che verranno dopo.

     

    Giulia

     

  • Un piccolo cuore coraggioso

    Ciao, sono Joy. Katerin e Davide sono la mia mamma e il mio papà. Ho chiesto a loro di raccontare la mia storia perché io sono ancora troppo piccolo per farlo: ho 14 mesi.

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    Un piccolo cuore coraggioso

    Ciao, sono Joy.

    Katerin e Davide sono la mia mamma e il mio papà. Ho chiesto a loro di raccontare la mia storia perché io sono ancora troppo piccolo per farlo: ho 14 mesi.

     

    Se sono qui, è perché loro hanno deciso di farmi nascere, anche se già mentre la mia mamma mi aspettava si capiva che il mio cuore sarebbe stato diverso da quello degli altri bambini.

    Alcune strutture sanitarie avevano consigliato ai miei genitori di interrompere la gravidanza perché avevo un ventricolo solo e avrei dovuto affrontare un cammino difficile e pieno di incertezze, ma loro hanno scelto di non arrendersi.

     

    La mia patologia è una cardiopatia congenita, una di quelle che le persone hanno già quando nascono. Si chiama cuore sinistro ipoplasico: in pratica, mi manca la metà del cuore, ma so che posso farcela lo stesso.

    In Italia le strutture in grado di trattare questa malattia sono poche, a Milano, Bergamo e Roma sono alcune di queste. Dopo aver consultato diversi specialisti, i miei genitori sono approdati a Niguarda, al De Gasperis Cardio Center: è l’ospedale dove sono nato e dove una squadra fortissima mi ha seguito da quando ero nella pancia della mamma e continuerà a farlo nei prossimi anni.

     

    Quando ho visto la luce, e la diagnosi già fatta mentre mamma mi aspettava è stata confermata, ho affrontato prima un trattamento farmacologico di un paio di settimane e poi un primo intervento; una seconda operazione è stata fatta quando avevo cinque mesi. È il “percorso” che si segue normalmente per i bambini che hanno un problema come il mio; quando sarò un po’ più grande, probabilmente fra i tre e i cinque anni, avrò un altro intervento, che dovrebbe essere l’ultimo. Se invece le cose dovessero complicarsi potrebbe toccarmi il trapianto, ma non ho paura: mamma e papà hanno conosciuto bambini più grandi che hanno anche loro il cuore ipoplasico e ce l’hanno fatta.

     

    Tra un intervento e l’altro il mio cuore è in convalescenza ed è tenuto sempre sotto controllo. Mentre ho passato il mio primo anno di vita in ospedale, però, adesso vivo a casa con mamma e papà che mi portano periodicamente a fare le visite e gli esami. Quelle che i medici chiamano complicanze – e sì, ne ho avute: i cardiologi hanno detto che nella mia situazione è normale che arrivino, anche se mamma e papà si preoccupano moltissimo ogni volta – finora si sono risolte.

     

    Se tutto andrà bene, quando crescerò farò una vita normale anche con un ventricolo solo: potrò giocare (lo faccio già, il mio amico preferito è un polipo blu), studiare, lavorare, avere bambini e perfino fare sport: certo non a livello agonistico, ma le mie Olimpiadi, in un certo senso, le sto già facendo ora. E le stanno facendo mamma e papà. Per loro hanno inventato una disciplina nuova: la maratona con il salto a ostacoli. È uno sport di resistenza che richiede molti sforzi, soprattutto psicologici ed emotivi ogni volta che c’è, appunto, un ostacolo da affrontare. Ma loro non si fermano, e mi sorridono sempre. Il loro trucco? Hanno capito che quando c’è qualcosa che non va non sono io a soffrire, ma sono loro, e questo li conforta. Non sono un po’ speciali? O forse sono così semplicemente perché sono genitori.

     

     

    A proposito di persone speciali: intorno a me ce ne sono tante, ma due sono “un po’ più speciali” delle altre. Una è la dottoressa Paola Corbella, la ginecologa della mia mamma: è il primo medico che mi ha conosciuto e da subito ha fatto il tifo per me. L’altro è il dottor Stefano Marianeschi, il mio cardiochirurgo specializzato nella cura dei bambini: si è preso cura di me fin da prima che nascessi e, insieme ai suoi colleghi, mi sta accompagnando per mano in tutta la strada. All’inizio erano solo i miei dottori, da quando sono stato battezzato sono anche la mia madrina e il mio padrino.

     

    Joy

     

     

    P.S. Voglio dire grazie anche a un altro “amico”: la Fondazione per l’infanzia Ronald McDonald che ha accolto la mia mamma nella Ronald McDonald Family Room® di Niguarda per tutto il periodo in cui io sono stato ricoverato in patologia neonatale: grazie alla loro convinzione che una famiglia unita è la prima forma di cura, ci hanno permesso di restare vicini anche lontano da casa, e per entrambi noi (e anche per papà) è stato davvero molto importante.

     

  • Voglia di normalità

    Nato a Roma, vivo a Bari e sono rinato a Milano.

    A giugno compirò vent’anni di vita con un nuovo cuore e ho deciso di “festeggiare”. Chiamerò i familiari e gli amici più cari, e passeremo una giornata di gioia, felici di poter stare insieme.

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    Voglia di normalità

    Nato a Roma, vivo a Bari e sono rinato a Milano.


    Giacomo ScarasciaCon una cardiomiopatia aritmogena – la diagnosi è arrivata dal Gemelli di Roma – avevo poco da scherzare: tachicardie fortissime, svenimenti... La mia vita era piena di limitazioni: dovevo essere prudente, attento, non potevo sopportare certi sforzi o fatiche, non potevo guidare. Nonostante io non abbia mai smesso di lavorare – insegno al Politecnico di Bari –, ne risentiva anche l’ambito professionale. Soprattutto ne risentiva la mia famiglia: i miei tre figli piccoli non potevano contare su un papà a pieno ritmo e a tempo pieno, e io non potevo stare con loro come e quanto avrei voluto.


    Negli anni che hanno preceduto il trapianto di cuore, al Policlinico di Bari mi hanno impiantato un defibrillatore automatico, uno dei primi in Italia: il mio cuore lo faceva entrare in funzione così spesso che nel tempo ne ho dovuti cambiare tre. Al San Raffaele di Milano ho avuto diversi interventi di ablazione, ma le recidive prima o poi si ripresentavano.


    Giacomo ScarasciaInsomma, quando è giunto il momento di pensare al trapianto, ho analizzato la situazione con l’aiuto di mio padre: dalle nostre “indagini” ci siamo fatti l’idea che quello di Niguarda fosse il miglior centro a livello nazionale per i trapianti e così, tra fine 2002 e inizio 2003, sono ripartito per Milano.


    In lista d’attesa – dopo che, a fronte di esami e approfondimenti, hanno ritenuto opportuno inserirmi – sono rimasto pochi mesi. La telefonata dal Cardio Center è arrivata la mattina di un caldissimo 23 giugno, e tutto è accaduto molto in fretta: ho preso un aereo al volo e alle 15.00 ero già a Niguarda.

     

    In sala operatoria sono entrato con il sorriso: non vedevo l’ora di poter riprendere una vita normale, grazie allo sconosciuto donatore, ai medici, chirurghi e infermieri. E quando ne sono uscito ho fatto di tutto perché fosse prima possibile. Mi prescrivevano mezz’ora di esercizio e io andavo avanti per un’ora; mi dicevano “fai un piano di scale” e io ne facevo 10 o 20; mi assegnavano 10 minuti di cyclette e dopo mezz’ora mi trovavano ancora lì a pedalare. Sono stato fortunato, lo so, perché il mio organismo era in grado di “stare al passo” con quanto la mia volontà mi spingeva a fare: dopo 15 giorni di ricovero sono tornato a casa e al mio lavoro. Conservo ancora la lettera di dimissioni.


    Giacomo ScarasciaÈ stato proprio nel post-operatorio che mi sono reso conto: l’intervento è fondamentale, imprescindibile, ma è solo il primo passo. Quello verso il ritorno alla normalità è un percorso fatto di regole precise, di tappe ben scandite, di procedure di controllo e di verifiche, di terapie e di upgrade. Ed è qui, nell’organizzazione impeccabile di questo processo che continua tuttora – a distanza di 20 anni sono seguito costantemente dal Cardio Center – che ho avuto la certezza di aver scelto il posto giusto: anche al di là della “bravura” dell’equipe che esegue l’intervento, una
    squadra e una macchina organizzativa che funzionano, e che non mi stancherò mai di ringraziare, hanno fatto e fanno la differenza.


    A giugno compirò vent’anni di vita con un nuovo cuore e ho deciso di “festeggiare”. Chiamerò i familiari e gli amici più cari, e passeremo una giornata di gioia, felici di poter stare insieme. Agli invitati chiederò di non portare regali, ma di fare una donazione alla Fondazione Cardiologia Angelo De Gasperis ETS, perché possa continuare a sostenere l’attività del Cardio Center di Niguarda, preziosa per me e per tanti altri pazienti.


    Giacomo Scarascia Mugnozza

  • Un cuore in maglia azzurra

    La mia storia? In testa, nelle gambe e nel cuore ho sempre avuto… una bicicletta. 

    Ci sono salito a 3 anni, e a 7 ho cominciato a gareggiare e a vincere: ogni domenica sul podio. Sognavo la maglia azzurra, ma non sapevo ancora di avere una cardiomiopatia aritmogena al ventricolo destro.

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    Un cuore in maglia azzurra

    La mia storia? In testa, nelle gambe e nel cuore ho sempre avuto… una bicicletta.

     

    Ci sono salito a 3 anni, e a 7 ho cominciato a gareggiare e a vincere: ogni domenica sul podio. Sognavo la maglia azzurra, ma non sapevo ancora di avere una cardiomiopatia aritmogena al ventricolo destro.

     

    L’ho scoperto a 14 anni, quando sono finito in Pronto Soccorso con il cuore in tachicardia: c’è voluto un bel po’ perché riuscissero a rallentarmi il ritmo del battito.

     

    Ho detto addio alle gare, ma all’inizio non ho dovuto rinunciare a pedalare: bastava farlo con moderazione, e intanto seguire le cure. Ma con il passare degli anni il cuore si affaticava troppo e anche i medicinali non bastavano più: mi è toccato scendere dalla bici. A un certo punto mi hanno messo un defibrillatore sotto pelle, ma dopo un anno non bastava più neanche quello: ci voleva il trapianto.

     

     

    Sono arrivato al Cardio Center di Niguarda, con i miei problemi respiratori e il cuore ingrossato, e sono entrato in lista d’attesa. La chiamata ‘giusta’ è arrivata un 30 maggio, il 31 ero in sala operatoria ed è andato tutto bene. E poi mi sono rimesso a pedalare, prima sulla cyclette per la riabilitazione, poi su una bicicletta vera: me l’ha regalata mio fratello.

     

    E in bicicletta, dopo il trapianto, la maglia azzurra l’ho indossata davvero, e con onore: l’ho portata tre volte sul gradino più alto del podio dei campionati per trapiantati di cuore e polmone.

     

    Come ho fatto? Con passione, volontà, costanza e amicizia. Quella con Gianluigi, medico dello sport: è anche lui appassionato di bicicletta e ci alleniamo insieme. E quella… con il mio donatore, anche se non ho mai avuto idea di chi fosse.

     

    All’inizio non riuscivo a mandare giù il fatto che io me l’ero cavata perché lui non c’era più, che mentre io ricominciavo a vivere qualcuno stava soffrendo per aver perso un figlio, un fratello, un amico. Non mi davo pace. Un po’ alla volta ho capito che è il destino che ha voluto così. Da allora, quando pedalo e mi avvicino a una cima o a una meta, penso a quel ragazzo che non ho mai conosciuto, gli ‘parlo’. «Dai che ce la facciamo», gli dico, «Dai che arriviamo in cima», come se fossimo in due”.

     

    Ivano Saletti

  • Viva la mamma

    Ciao, mi chiamo Paola. Già da piccola, giocavo a pallavolo a livello agonistico. Facevo controlli regolari e il risultato era sempre lo stesso: idonea. Peccato che a un certo punto – eravamo a inizio 2014 – cominciai a sentirmi il fiato corto, un battito strano, le extrasistole… All’Università stavo finendo di dare gli esami e stavo preparando la tesi.

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    Viva la mamma

    Ciao, mi chiamo Paola. Già da piccola, giocavo a pallavolo a livello agonistico. Facevo controlli regolari e il risultato era sempre lo stesso: idonea. Peccato che a un certo punto – eravamo a inizio 2014 – cominciai a sentirmi il fiato corto, un battito strano, le extrasistole … All’Università stavo finendo di dare gli esami e stavo preparando la tesi.

     

    Sei giovane, mi dicevano tutti, vedrai che non è niente. Il medico di base mi rispedì a casa con una diagnosi di “ansia” e con i fiori di Bach. Poi saltò fuori un dolore sotto la scapola sinistra, ma sparì con la fisioterapia. Ad aprile, la laurea in lingue.

     

    A fine estate i sintomi erano troppi, ma anche un holter non rivelò nessuna anomalia. Se hai 25 anni e non salta fuori niente, chi pensa di andare più a fondo?

     

    Nel mio caso, la mamma. È lei che mi ha mandato dalla cardiologa, e la cardiologa ha “scovato” il mostro: un aneurisma di 8,6 cm all’aorta superiore. Ed è lei stessa che ha contattato subito i cardiochirurghi del Niguarda.

    Loro mi hanno spiegato la situazione con grande chiarezza: avere una spiegazione è stata la spinta per decidere di farmi operare. In un certo senso, ero addirittura contenta: sapere di poter risolvere la situazione ha avuto la meglio sulla paura.

     

    La cosa straordinaria è che, invece di mettermi una valvola nuova, sono riusciti a sostituire solo il pezzo di aorta e a rimettere in funzione la mia valvola. Con una valvola cardiaca meccanica, una futura gravidanza avrebbe potuto essere rischiosa per me e per il feto. Invece, grazie alla mia valvola “rattoppata” da bravissimi sarti, oggi sono la mamma di Diego. Al Cardio Center lo conoscono tutti: quando ho scelto di affrontare una gravidanza, ho deciso di partorire a Niguarda; il “mio” cardiologo veniva a verificare ogni giorno che tutto filasse liscio, ed è venuto a trovarmi quando ho partorito.

     

    Qualche anno fa, mia mamma ha avuto problemi alla valvola mitralica. Indovinate a chi si è rivolta? Adesso stiamo benone tutt’e due, e ogni anno andiamo a fare le visite di controllo insieme.

     

    Paola Muscionico

  • Prenderla con filosofia

    Stare fermo in un posto non è proprio nelle mie corde. Sarà che per molti anni sono stato un diplomatico: sempre in giro per il mondo, i traslochi non li conto più, e neanche le miglia di voli aerei accumulate. Adesso sono in pensione, ma continuo a muovermi per coltivare i miei interessi e i miei contatti internazionali, e anche a lavorare: scrivo.

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    Prenderla con filosofia

    Stare fermo in un posto non è proprio nelle mie corde. Sarà che per molti anni sono stato un diplomatico: sempre in giro per il mondo, i traslochi non li conto più, e neanche le miglia di voli aerei accumulate. Adesso sono in pensione, ma continuo a muovermi per coltivare i miei interessi e i miei contatti internazionali, e anche a lavorare: scrivo.

     

    La prendo un po’ larga, mi perdonerete: mi piace chiacchierare. Sono nato sull’Adriatico, che è un gran bel mare ma ha un clima umido che fa anche qualche dispetto: a me, ad esempio, ha regalato una cardiopatia reumatica. Dopo che ho avuto un infarto (un infarto un po’ strano: fate conto che sono arrivato in ospedale a piedi!), un amico archeologo che vive sull’Appennino marchigiano – anche lui con i suoi bravi problemi di cuore – mi ha suggerito di far vedere la mia miocardiopatia dilatativa al Niguarda.

     

    Al De Gasperis Cardio Center ho cominciato un percorso in due tappe. Prima mi hanno impiantato una un Vad, un dispositivo di assistenza ventricolare che aiuta il cuore a pompare il sangue ai vari organi del corpo: una specie di “ponte temporale” fino al momento del trapianto. Poi mi hanno messo un nuovo cuore.

     

    Cosa posso dire? Che la malattia è il segnale che ti dà il corpo per farti cambiare vita, ma che dopo l’intervento puoi tornare a fare la vita di prima: per me, almeno, è andata così. Appena ho potuto ho ripreso a viaggiare, due giorni qua, tre giorni là, altri due in un altro posto ancora…

     

    Neanche in ospedale riuscivo a stare fermo, cioè a non fare niente, e neanche zitto. Durante il ricovero ho scritto uno dei miei libri, nel post-operatorio ho studiato per laurearmi in Scienze politiche – ho preso la triennale nel 2015, la specialistica nel 2021 – e durante gli incontri con chi mi ha curato ho avuto tantissime conversazioni interessanti. Ma non parlavamo del mio cuore: con i dottori, si chiacchierava di filosofia!

     

    Stefano Barocci

     

  • Il paziente numero 12

    Quanti anni ho? 60.

    Quanti ne ha il mio nuovo cuore? 37.

    È vero, non è più così nuovo.

    Mi ha già regalato quasi quattro decenni di vita. È il regalo più bello che abbia mai ricevuto.

    E poi mi ha fatto sentire un po’ speciale. Se ci ripenso…

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    Il paziente numero 12

    Quanti anni ho? 60. Quanti ne ha il mio nuovo cuore? 37. È vero, non è più così nuovo. Mi ha già regalato quasi quattro decenni di vita. È il regalo più bello che abbia mai ricevuto. E poi mi ha fatto sentire un po’ speciale. Se ci ripenso…

     

    Quando seppi che avrei avuto bisogno di un trapianto, in Italia questo tipo di intervento non si poteva ancora fare. Ricordo benissimo: stavo cercando di organizzarmi per andare a farmi operare a in Francia, a Lione. Ma proprio i cardiologi del Reparto Cardiologico di Niguarda (adesso si chiama Dipartimento funzionale A. De Gasperis Cardio Center) mi dissero: «Abbi un po’ di pazienza, Gian Antonio, e vedrai che l’intervento lo facciamo qui».

     

    In effetti, 15 giorni dopo uscì la legge che consentiva i trapianti nel nostro Paese: era il 15 novembre 1985. Io venni operato l’8 dicembre, meno di un mese dopo: sono il 12° paziente in Italia a essere stato sottoposto a un trapianto di cuore.

     

    Che cos’è successo dopo? Quello che succede oggi: la degenza, le terapie, la fisioterapia per rimettermi in forma... È stato lì che ho conosciuto un asso dello sport: Alberto Cova, campione olimpico dei 10.000 metri piani ai Giochi di Los Angeles del 1984. Pedalava sulla cyclette di fianco alla mia. Lui si preparava a mietere allori sportivi, io mi allenavo per riprendere una vita normale, ed è andata proprio così: dopo un primo periodo a casa, ho recuperato del tutto, ho cercato e trovato un lavoro in banca, ho seguito la mia carriera professionale, mi sono sposato, ho avuto ... figli e ... nipotini. Oggi sono in pensione, l’età mi ha portato qualche altro acciacco, faccio controlli ogni sei mesi e… va bene così.

     

    Gian Antonio Radice